Amaputo

Quella che vi racconto oggi è la fiaba di Amaputo, un orango che abbandona la sua foresta per incontrare gli "uomini".
Vi auguro una buona lettura e ricordatevi che aspetto i vostri disegni!
Ciao
Enza Emira

Amaputo tremava ancora nel sonno, come se fantasmi orribili possedessero il suo cervello e si divertissero a terrorizzarlo.
Era arrivato ormai da più di tre settimane al Centro di Rieducazione ed ancora non era riuscito a trovare un po’ di pace. Le sbarre che lo circondavano gli apparivano come il segno indelebile dell’ostilità degli uomini verso gli animali.
Ma perché – si chiedeva Amaputofanno i padroni? Cosa c’è di così diverso tra un orango come me e un essere umano?”.

Certo, si era accorto che gli uomini che adesso si prendevano cura di lui gli mostravano affetto, ma come poteva fidarsi?
Quando era nella foresta, prima che venisse catturato da quello sciocco bambino e da suo padre, suo nonno Jaki gli aveva parlato dei cugini uomini e di come loro avessero rinunciato alla libertà della vita selvaggia per diventare più forti e dominare la natura.
Amaputo aveva provato subito simpatia per quei cugini che, in fin dei conti, avevano solo cercato una vita diversa.
E, quando era stato intrappolato, non s’era rammaricato più di tanto: avrebbe conosciuto il mondo degli umani e questa sì che era avventura!

Ma il risveglio era stato brusco. E’ vero che Joel, lo sciocco bambino, all’inizio passava tutti i pomeriggi a giocare con lui, ma poi si era stancato e sempre più lo lasciava solo.
Dopo qualche mese Joel si era praticamente dimenticato del suo orango ed il padre, per stare tranquillo, aveva preso l’abitudine, quando usciva, di incatenarlo al tronco dell’albero al centro del giardino.

E lì Amaputo era rimasto per mesi.
Un po’ d’acqua ogni tanto e qualche frutto andato a male. La fantastica avventura con i cugini umani era finita così.

Tra i volontari del Centro di Rieducazione che ora si prendevano cura di Amaputo c’era Daniel, un ragazzo magro come uno spillo e alto come un albero.

Daniel s’era subito affezionato all’orango e spesso si attardava a chiacchierare con lui spiegandogli che, sì, stava in gabbia, ma era una gabbia speciale: perché era enorme, perché non c’erano catene e perché ospitava tanti altri oranghi che avevano vissuto la sua stessa esperienza. “E poi – aggiungeva - tutti questi tronchi, questi anelli e queste corde che pendono dall’alto servono solo a riabituarti a saltare di ramo in ramo, a muoverti liberamente, insomma a ritornare alla tua vecchia vita”.

Amaputo guardava sornione il volontario e si ricordava della prima volta che aveva incontrato quel buffo ragazzo spilungone e dall’andatura dinoccolata. Era entrato in giardino parlottando con Joel e, appena lo aveva scorto, incatenato e malmesso, s’era precipitato subito ad accarezzarlo.
Dopo qualche ora era tornato con altre persone ed una gigantesca scatola di metallo: lì lo avevano sistemato per trasportarlo al Centro.

All’inizio Amaputo si era ribellato e Daniel aveva dovuto trascinarlo a forza nella scatola di metallo. Chiuso lì dentro, al buio, l’orango si dimenava lamentandosi. “Come è potuto succedere – si chiedeva - Come ha fatto Joel, il mio amico Joel, a darmi via? Mi ha venduto, mi ha buttato come un vecchio giocattolo”.
Ma ciò che Amaputo non poteva sapere era che Daniel ed i suoi amici, in questo modo, avevano riportato nella foresta già più di cento oranghi.
Era il loro mestiere: liberare gli animali prigionieri e aiutarli a ritornare alla vita selvaggia.
All’inizio il nostro orango si accucciava in un angolo della gabbia del Centro di Rieducazione e restava per ore a fissare il vuoto, completamente assorto.
Certo - si ripeteva – qui si mangia bene e di pomeriggio mi portano pure a passeggio…”. Ma che nostalgia del nonno Jaki!


Amaputo, però, aveva ancora troppa paura degli uomini. Non riusciva a credere che prima o poi l’avrebbero lasciato andare via.
Così, nonostante gli sforzi dei volontari, non reagiva, non partecipava neppure ai giochi con gli altri oranghi.
Daniel era molto preoccupato. “Questo orango – si diceva – è troppo malinconico. Se continua così sarà difficile ridargli la libertà”.
Arrivò “il giorno della foresta” il giorno cioè in cui, dopo un mese di riabilitazione, gli oranghi venivano liberati. Daniel, nonostante i propri dubbi, accompagnò Amaputo ai piedi di un grosso albero, nel cuore della foresta, ma l’orango neppure provò ad arrampicarsi.
Tutti gli altri suoi compagni invece, non si fecero problemi tanto erano desiderosi di riprendersi la propria libertà!
Daniel consolò Amaputo: “Vedrai, la prossima volta ce la farai” gli diceva, ma in fondo al cuore era triste.

Riprovarono, dopo un mese, con un secondo “giorno della foresta” e poi, passate quattro settimane, con un terzo e ancora, trascorsi altri trenta giorni, con un quarto.
Ma... niente. Amaputo non sembrava voler ritornare alla sua vecchia vita.
Daniel incominciava a perdere la speranza.
Lo spirito della Natura, però, non abbandona mai i suoi figli e nel quinto “giorno della foresta”, trascorsi cinque mesi, accadde l’incredibile: Amaputo riaprì gli occhi alla libertà e, come uno scoiattolo, scivolò sull’albero conquistando la cima in un batter d’occhio.
All’improvviso aveva riconosciuto la sua casa: la foresta.

Ora, ogni tanto, Daniel trova davanti alla porta del Centro qualche strano frutto e allora sa che Amaputo è passato di lì. A volte l’orango si ferma sugli alberi fuori dal recinto del Centro e guarda Daniel e gli altri volontari che aiutano i nuovi oranghi a imparare di nuovo a salire sui rami. Sorride e pensa a quanto piccola sia la differenza tra l’uomo e la scimmia.

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